Content Marketing: raccontare, emozionare e misurare

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Sempre più spesso non basta fare Content Marketing, almeno non come lo si faceva una volta, bisogna dare grande peso e rilevanza al visual e non è una cosa facile da riconoscere per chi ha sempre basato il suo lavoro al 99,9% sui testi.

Un visual accattivante è sempre un ottimo punto da cui partire, se poi si deve raccontare una storia, un prodotto o un brand sui social diventa quasi fondamentale.

Per fare un buon Visual Content Marketing va detto poi che non basta assolutamente raccontare una storia sui social media, avvalendosi magari di belle foto o video, per ogni operazione digital, che non sia un salto nel buio, servono dati, numeri, statistiche, insomma certezze, o almeno qualche certezza, seppur limitata.

La differenza tra il proverbiale cugino che smanetta su Facebook e il professionista si misura in gran parte proprio su questo campo.

Al cugino spesso manca un piano, non sa da dove parte, dove deve arrivare e men che mai si preoccuperà di prendere appunti, fare misurazioni, osservare e riportare il tutto, all’inizio, durante e alla fine del suo maldestro intervento. Magari produrrà dei visual carini, magari sfrutterà finalmente la sua reflex, ma se non misura e non capisce cosa sta misurando, poco importa.

Oggi si parla molto di Corporate Storytelling e ci si interroga spesso, a vari livelli, su quali siano gli ingredienti base per progetti narrativi d’impresa e stesso dicasi sulle tecniche per lavorare efficacemente su brand e strategie di comunicazione realmente convincenti, bisogna capire quali siano i linguaggi da usare e i canali più adatti per la nostra narrazione.

Non tutti i visual sono uguali, non tutti i social sono uguali, non lo sono neppure (guarda caso) tutte le aziende.

Per raggiungere la propria audience in modo corretto e pienamente efficace bisogna saper raccontare, emozionare e coinvolgere, ma anche saper osservare, misurare, riflettere. C’è tanto studio, bisogna essersi fatti le ossa, non c’è invece spazio, neanche un po’, per l’improvvisazione, che nell’era iperconnessa nella quale viviamo è più che mai rischiosa.

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